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L’America brucia: tutto già visto

L'AMERICA BRUCIA: TUTTO GIA' VISTO
La memoria ci ricorda che questa nazione ha una lunga storia di democrazia ma anche di crepe e misfatti

18 Giugno 2020

Tutta l’America brucia. Non è bastata l’incriminazione dei responsabili per l’omicidio dell’afroamericano George Floyd a placare la rabbia dei manifestanti, che hanno invaso le strade non solo a Minneapolis ma in tutto il Paese. Il presidente Trump, dopo essersi dichiarato paladino dei manifestanti pacifici, li ha fatti sgombrare dai pressi della Casa Bianca con i lacrimogeni. Avrebbe anche voluto l’intervento dell’esercito dicendo che sono soltanto “gruppi organizzati”; fosse per lui, le proteste verrebbero represse per ristabilire l’ordine, lungi dall’idea che alle radici di questa rabbia ci siano problemi seri da risolvere. Ma la rivolta non è questione di ordine pubblico, è il riflesso della divisione socio-razziale negli Stati Uniti. George Floyd non è la prima vittima della violenza gratuita di poliziotti americani. Il pestaggio di Rodney King, che si risolse con l’assoluzione degli agenti incriminati, provocò nel ’92 proteste di massa a Los Angeles ed oltre 50 morti. Questa volta però, con un’ondata che si è estesa praticamente su tutto il territorio degli Stati Uniti, il quadro è diverso. E l’America si riscopre democrazia debole e incompiuta.

“Stop the pain – fermate la sofferenza” è l’appello lanciato da Philonise Floyd, fratello di George, alla Camera dei deputati di Washington. “Siamo nel 2020, è l’ora di dire basta. Tutti quelli che protestano nelle strade ve lo dicono: basta”. Una rivoluzione culturale sembra soffiare da un capo all’altro degli Stati Uniti. Un dato significativo è la crescita costante della partecipazione dei bianchi, soprattutto giovani. Dicono i sondaggi: la consapevolezza delle ingiustizie razziali e delle discriminazioni da parte della polizia è aumentata fino a raccogliere il 71% dei bianchi (il livello è aumentato del 25% in cinque anni). Le voci che si levano per chiedere giustizia ed una effettiva parità sono tantissime. Se le proteste si trasformeranno in azione politica, se neri e giovani andranno a votare compatti, qualcosa certo potrà evolvere. Intanto si attende la sentenza del tribunale per i poliziotti coinvolti. Per ora al licenziamento è seguita l’incriminazione ma una condanna lieve o peggio una assoluzione scatenerebbe altre proteste.

Nel 2009 l’elezione di Barack Obama aveva dato l‘illusione che il cammino cominciato da Martin Luther King mezzo secolo fa fosse giunto alla meta.

Il mondo aveva inneggiato al primo presidente per metà africano della storia americana, simbolo della felice integrazione dei neri. Non è così e Trump ne è l’espressione. Il caos attuale sarà sedato, ma le conseguenze del caso Floyd dureranno, perché non fu omicidio casuale. “Trump – ha detto l’ex capo del Pentagono Jim Mattis – è il primo presidente degli Stati Uniti che non cerca di unire il popolo americano, né finge di provarci. Al contrario, ci divide”. Sarebbe però ingenuo pensare che, passato Trump, tutto sarà risolto. Dovremo ancora convivere con questa tabe ereditaria, da cui ebbe origine la guerra civile (1861-1865) di fatto rifondatrice degli Stati Uniti d’America su una base unitaria.

Dopo i fatti di questi giorni pare ovvio affermare che l’America, un tempo guida dell’Occidente, ha toccato il fondo. La storia però ci obbliga a ricordare che tutto è un film già visto. Ero giovane quando vennero uccisi Martin Luther King, John e Robert Kennedy. Gli adulti dicevano che il sogno di un’America giovane e idealista si era spento nel sangue. Ero giovane quando le piazze del mondo gridavano “Yanke go Home” contro la guerra ingiusta in Vietnam e le proteste dei pacifisti incrociavano la denuncia del razzismo contro i neri. Più tardi lo scandalo del Watergate, che costrinse Nixon alle dimissioni, sembrò l’agonia di una democrazia corrotta; Reagan fu visto nel mondo come un cowboy anticomunista; molto prima di Trump già Bush abbandonò il trattato di Kyoto sul clima, favorì l’industria del petrolio, poi l’invasione dell’Iraq, giustificata con una bugia. Arroganza, prepotenza, unilateralismo: è già tutto accaduto.

Infine però bisogna fare una constatazione, come consolazione: l’Occidente pratica l’autocritica, sconosciuta in altre parti del mondo.

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